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Viaggio in Tibet – Passaggio a Lhasa

Tibet Lhasa Potala Palace
Palazzo del Potala – Lhasa – Tibet
L’aeroporto giace sulla riva destra del Brahamaputra, che qui in Tibet si chiama Yarlung Tsangpo.
Calando dalle alte vette innevate viene un po’ di vertigine e si pensa dove mai si potrà atterrare in mezzo a tante creste che sbucano tra le nuvole. Poi, improvviso, il canalone del fiume che quassù è già rispettabilmente ampio.
I piedi delle montagne sono di colpo interrotti dalla valle del Brahamaputra e qua e là brullano al sole poggi verdi di prati e salici.
La strada per Lhasa costeggia il fiume dentro un paesaggio lunare, tra cime e massi in bilico. L’hanno costruita i cinesi negli anni ’50. Sorprende il verde tenero di questa valle disseminata di piccoli bunker con bandierine al vento sui comignoli. Sono le case dei contadini, murate e quadrate come fortini.
Sul bianco della calce risaltano agli occhi strane “pizze” nere che altro non sono se non lo sterco di yak messo a seccare per l’inverno.
Salici e pioppi se la cavano bene a 3700 metri di quota, e così i campi di grano, di orzo e perfino gli orti di cavoli.
E’ la latitudine a favorire una vegetazione altrove impossibile a queste altezze. La sorpresa è subito spiegata. Lhasa è sul 30° parallelo, lo stesso di Bassora, il Cairo e New Orleans. Da un punto di vista ambientale, dunque, il Tibet meridionale è nella fascia del tropico del Cancro. E’ per questo che anche d’inverno, pur con 15 gradi sottozero, i raggi battenti sui vetri delle finestre riscaldano le case senza bisogno di accendere le stufe.

Dopo 2 ore di viaggio da Gonggar la periferia di Lhasa si annuncia con un colpo allo stomaco, che è il fumo denso del cementificio. Ma per fortuna è stato costruito al di qua di uno sperone di roccia grande quanto un colle, superato il quale appare il Potala, il palazzo dei Dalai Lama.
La corona di montagne azzurre che chiude l’intero cerchio dell’orizzonte disegna un luogo che è per forza divino. Erompe improvviso un senso di spiritualità profonda, ma anche di magia, e più ci si inoltra in dimensioni temporali più si ha l’esatta percezione che Lhasa, con i suoi monasteri fortunatamente intatti, sia una grande tavola spiritica.
Le finestre danno sulla valle che, vista così, sembra la terra osservata dal Paradiso. Affacciato dalla terrazza dell’ultimo tetto del Porala, insieme ai suoni dei clacson, sento salire la musica sacra, ora più vicina ora più lontana.
L’aria cristallina concede visioni lontane e consente di udire suoni forse anche celesti. Il conflitto tra ieri e oggi visto da quassù appare attutito, quasi levigato dalla forza del tempo che non può passare. Sugli spalti austeri del Potala, Montagna di Budda, dove difficilmente la vita potrebbe posare il piede, mi inebrio per l’impossibile sogno. I monasteri si arrampicano sui fianchi rocciosi dell’Himalaya, le minuscole case si perdono nella luce spettrale del sole che illumina con violenza un paesaggio di povertà stupenda.

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